18 anni fa veniva preso d’assalto il teatro sulla Dubrovka. Ivan Tverdovskij ha girato il film “Konferencija” (Conferenza), raccontando della paura che col tempo non se ne è andata.
È uscito il film “Konferencija” del regista trentunenne russo Ivan Tverdovskij, mostrato fuori concorso a settembre alla Mostra del Cinema di Venezia. La protagonista della pellicola è Natal’ja, una suora che 18 anni dopo l’attentato sulla Dubrovka esce dal monastero e torna a Mosca per assistere alla giornata di commemorazione all’interno del teatro.
Aleksandra Sivcova ha parlato con Tverdovskij di come vivono le persone con sindrome post-traumatica, di cosa dicono del film i veri ostaggi del “Nord-Ost” (spettacolo in corso la notte dell’assedio) e del perché “Konferencija” non ha ricevuto finanziamenti statali.

– Lei ha girato un film su una suora che organizza una commemorazione per le vittime della Dubrovka. Quando ha deciso di farlo?
– Tre anni fa ho capito che volevo raccogliere del materiale dedicato alle vittime del terrorismo internazionale, ma di concreto non avevo nulla. Oltretutto, mi interessava la storia del “Nord-Ost”: mi era capitato di incontrare diverse persone che avevano vissuto quel momento. Conosco chi era fra gli ostaggi e chi stava recitando nel musical. Nessuna delle loro storie coincideva. Ho un discreto passato di documentari, perciò è stato difficile passare alla pubblicistica. Non volevo spostarmi su un livello di narrazione pseudo-documentaria; avevo intenzione di creare una vera storia d’autore dedicata a quegli avvenimenti.
Due anni fa ho iniziato a scrivere la prima bozza e tutto si collegava. Diversi destini hanno dato forma a una storia di finzione che riassume quei particolari momenti.
– Perché ha deciso di concentrarsi proprio sul “Nord-Ost”? Prima di “Konferencija” non c’erano film d’autore su questa tematica.
– Questa storia non è sul “Nord-Ost”, ma riguarda piuttosto la sindrome post-traumatica, gli ostaggi che erano presenti in quel momento e che ancora convivono con quel trauma. Volevo sapere come vivono. La storia della suora [Natal’ja, la protagonista del film] è basata su fatti realmente accaduti a una donna scappata in un monastero [dopo l’attentato terroristico]. Mi ha chiamato per raccontarmi i punti fondamentali: la sindrome post-traumatica e la paura globale come causa primaria di tutto. Tutto ciò ha provocato in me una risposta positiva. Qui non solo l’accaduto del 2002 è importante, ma il film si svolge oggi, adesso. È la sera della commemorazione di avvenimenti lontani, davvero lontani, eppure avviene in questo momento.
– Come ha creato la protagonista?
– Il film prendeva forma scena dopo scena. C’è la serata della memoria che si trasforma in conferenza e c’è la storia a sé della suora, la protagonista. Ho lavorato anche sul copione; sono stati due processi paralleli. Ho raccolto tutte le informazioni che sono riuscito a trovare, ho parlato con gli ostaggi, e così ho creato la storia della protagonista, composta da tre donne.
[Durante l’assalto terroristico] ci furono donne che saltarono dalla finestra; dopo questo episodio i terroristi (di origine cecena) vietarono [agli altri ostaggi] l’utilizzo del bagno. C’è stata una donna che dopo l’attentato è fuggita in un monastero: su di lei non si sa nulla, le sue tracce si sono realmente perse ed è impossibile mettersi in contatto con lei o trovarla. E infine c’è una donna con la sua famiglia: il marito e due figli. Si era recata a teatro per assistere al musical, ma iniziò a sentirsi male nel corso del primo atto, quindi tornò a casa lasciando i familiari in platea. All’inizio del secondo atto ci fu l’irruzione nella quale perse un figlio. Queste sono diventate le storie determinanti.
– Prima di iniziare a scrivere il copione si è relazionato con gli ostaggi?
– Certo, questo è un processo fondamentale. “Konferencija” è un racconto storico, è stato fondamentale immergersi completamente in tutto il materiale.
Ho chiesto a una persona di raccontarmi minuziosamente tutto ciò che si ricordava di quell’accaduto, così come minuziosamente opera la nostra protagonista nel film quando organizza la commemorazione. Essendo già a conoscenza dei fatti da fonti aperte, gli ho chiesto di ricordare un poco alla volta: erano ricordi di momenti delicati.
– Cosa unisce oggi queste persone?
– Molti di loro non si rendono conto dei propri traumi. Quell’evento ha cambiato la loro vita, dividendola tra prima e dopo. Non tutti sono in grado di capire che vivono con una sindrome post-traumatica, mentre noi da esterni possiamo capirlo. Ci sono persone che credono sia tutto assolutamente normale, ma quei fatti hanno lasciato un segno nel loro destino e nella loro vita.
– Il loro rapporto con l’accaduto è cambiato?
– No, non è cambiato. Ognuno ne parla in modo diverso. In realtà, non a tutti interessa dire come si sentono. Quello che vedo è che non possono scappare da quello che è successo, non possono liberarsene.
– Quindi non si è riesce a superare questa sensazione?
– Sono convinto che esiste una fatale ineluttabilità e che non ci sia niente che possa aiutare. Ma soprattutto, in questo caso nulla deve aiutare. Questo è il mio parere di autore. Siamo abituati a ciò che ci circonda: il sole che ogni giorno sorge e tramonta, e la pioggia, con le nuvole che riempiono il cielo e l’acqua che inizia a cadere.
Non cerchiamo di cambiare la natura, poiché ci siamo stati delicatamente inseriti. Lo stesso accade con i fondamenti che vivono in noi. Percepiamo la paura come un evento dal quale non ci si può rifugiare.
– Quando ha iniziato a filmare, cosa voleva riconsiderare personalmente?
– Mi interessava fare i conti con la natura della mia paura. Sono giunto alla conclusione che ci sono cose inevitabili. La paura è una sensazione fondamentale e il film si basa su questo. Sono partito da qui, ci ho convissuto e continuo a viverci, nonostante il film sia già uscito. Questa sensazione non se ne va dalla mia protagonista, è diventata basilare. Per me è lo stesso.
– Lei è riuscito a capire come superare questa sensazione?
– No, come tutti gli altri sentimenti, essa ha la caratteristica di espandersi e rafforzarsi all’interno del suo recipiente, ovvero il nostro corpo. La paura cresce, aumenta e basta. È solo il nostro atteggiamento verso di lei che cambia; possiamo abituarci. Non ci spaventano più le cose che ci facevano paura da piccoli, il buio ad esempio, ma la paura stessa non se ne va e si rafforza.
– Si aspettava determinate reazioni sul film?
– Non mi aspetto mai reazioni. Mi occupo di arte contemporanea per risolvere i miei problemi personali attraverso lo schermo. In questo senso la mia reazione sul film è molto più interessante di quella degli spettatori. Per me è importante che qualcuno lo veda, che il film vada sul grande schermo e che non sia solo qualcosa che faccio per me stesso. Semplicemente non ne ho il diritto quando utilizzo le risorse di più persone: è un grande sforzo collettivo. Tuttavia, la mia posizione personale come autore non ha affatto bisogno del giudizio dall’esterno.
– Le persone che erano sulla Dubrovka quella notte hanno visto il suo film? Come lo hanno valutato?
– Molti [di loro] non sono pronti a vedere “Konferencija”. C’è stata la prima e ho invitato le vittime dell’accaduto. Mi hanno augurato che la presentazione andasse bene, ma non se la sono sentita di venire in sala e guardare il film. Li capisco, sul serio; è un loro diritto. Spero che avranno la possibilità di vederlo, ma non posso giudicarli per non essersi presentati in sala.

– È come se lei agisse nei panni della suora del suo film. Anche lei, la protagonista, invita a ricordare quanto accaduto.
– Sì, è possibile che sia così. Certamente, il fatto stesso che io abbia girato il film mi accomuna alla motivazione interiore della protagonista.
– Lo ha capito durante le riprese?
– Si è sempre qualcuno dentro la storia e io lo sono attraverso i miei protagonisti. Non solo sento un chiaro legame con la suora, esso è proprio diretto.
– In “Konferencija” lei non parla della responsabilità del governo sulle conseguenze dell’atto terroristico. Perché?
– Non avevo questo compito, come le persone con cui ho parlato. E lo stesso vale per i personaggi del film. Nessuno di noi ha sfiorato questa questione. Più che altro è un compito dei giornalisti. Si può infatti prendere a esempio l’inchiesta di Katja Gordeevaja, che ha realizzato un film-memoria su questo tema. Lei in quanto giornalista si è posta questo obiettivo. Io, in qualità di artista, non me lо posso porre; semplicemente, non mi interessa.
– Il suo film non ha ricevuto finanziamenti statali. Come mai, secondo lei?
– Ci siamo rivolti al Ministero della cultura per ottenere sostegno finanziario, ma la commissione di esperti non ha ritenuto il nostro progetto idoneo a ricevere l’appoggio statale. Non so a cosa sia legato; probabilmente è una questione di censura, autocensura. In fondo, per me si tratta di 20 persone che danno o non danno il proprio voto. Dipende esclusivamente da loro.
Fonte : meduza.io, 26-10-2020 – Intervista di Aleksandra Sivcova, traduzione di Giulia Conti

Ho iniziato a studiare russo per curiosità e mi sono appassionata sempre di più. Negli anni universitari ho avuto modo di studiare e lavorare in Russia per svariati periodi. Non mi sono fatta mancare i viaggi: Mosca, San Pietroburgo, l’anello d’oro, Ekaterinburg e poi fino a Vladivostok, percorrendo la tratta ferroviaria Transiberiana . Un pezzo del mio cuore è rimasto a Mosca.
Laureata in Mediazione linguistica e culturale e in Lingue moderne per la comunicazione e la cooperazione internazionale.